Durante la nostra discussione di questa mattina sono state già esposte alcune esigenze importanti che dovranno essere affrontate dall’Unione in vari settori.

Sono tutte esigenze di grande rilievo e possono essere affrontate utilmente, e con profitto, se si crea e se vi è un clima di disponibilità al lavoro comune.

È su questo che vorrei sottoporvi qualche riflessione, collegandomi a quanto ha detto il presidente Niinistö sullo spirito d’Europa.

Ieri abbiamo parlato delle insicurezze che contrassegnano le nostre pubbliche opinioni; insicurezze che sono dovute a vari fattori ma che provocano un clima in cui alcuni rispondono: “prima la nostra comunità nazionale”.

Questo slogan ‘prima noi’ si sta diffondendo nel mondo e, se si diffonde dentro l’Unione, è un virus molto rischioso.

Jean Claude Juncker due giorni fa, al Parlamento europeo, ha fatto un’opportuna distinzione fra patriottismo e nazionalismi nefasti, e noi rischiamo di avere un ritorno del virus dei nazionalismi accesi dentro l’Unione.

Siamo nel centenario dell’indipendenza della Lettonia e degli altri paesi baltici, ma anche nel centenario della fine della Prima guerra mondiale, seguita, dopo neppure vent’anni, dalla Seconda guerra mondiale.

Io sono, tra i presenti, quello più avanti negli anni e questo scarsamente simpatico privilegio mi porta a sottolineare che sono nato durante i bombardamenti e, forse per questo, mi è rimasta un’innata diffidenza, e un’innata idiosincrasia, verso qualunque pericolo di nazionalismo e di guerre.

Occorre riflettere su questo aspetto di fondo perché corriamo il rischio che riproporre dentro l’Unione un clima che non è soltanto concorrenziale ma è di contrapposizione, che poi diventa contrasto, poi diventa ostilità, poi non sappiamo cosa possa diventare.

Non si può parlare utilmente del futuro dell’Europa senza guardare al suo passato.

La seconda guerra mondiale, avendo posto la storia sul piano delle armi, ha poi fatto sì che una delle potenze vincitrici abbia annesso a se stessa alcuni Paesi, ne abbia sottoposti altri al suo dominio: una decina di Paesi, che hanno ritrovato libertà ed effettiva indipendenza alla fine del sistema sovietico. E potremmo aggiungervene altri che facevano già parte dell’impero zarista.

Questo è il passato dell’Europa e non è un passato lontano: neppure trent’anni.

Numerosi Paesi, e tra questi quelli dei Balcani Occidentali, hanno recuperato la loro storia.

Alla caduta del regime sovietico e del sistema sovietico, infatti, non si è fermata la storia, come nel titolo del libro di Fukuyama; al contrario, la storia ha ricominciato a scorrere.

È uscita dal congelamento che in Europa orientale si era creato e ha ricominciato a scorrere.

Forse è il caso di riflettere su qual è stato e qual è il senso di questo processo, che si è verificato, di integrazione europea. Che cos’è che ha spinto, nel 1950 – ’51, sei paesi a mettere insieme carbone e acciaio, cioè le basi dello sforzo bellico dei decenni precedenti? Che cos’è, dopo qualche anno, che ha spinto quei sei Paesi a mettere insieme il mercato e l’energia atomica e a dar vita alla Comunità europea? Che ha condotto, dopo quindici anni, al primo allargamento che è proseguito nelle tappe ulteriori, per poi arrivare, caduto il sistema sovietico, alla riunificazione dell’Europa dentro l’Unione?

Quale ne è stato lo scopo, lo spirito?

È stato quello di abbandonare il passato mettendo in comune il futuro degli europei.

Tutto questo è messo, oggi, in discussione e in crisi. Noi dobbiamo far comprendere, in maniera palese ed evidente, alle nostre pubbliche opinioni, ai nostri concittadini, che anche le realizzazioni attuali, il mercato unico, lo spazio Schengen, l’unione monetaria, rispondono a questo stesso spirito, hanno lo stesso obiettivo: mettere in comune il futuro degli europei.

Si tratta di una ragione, storicamente così grande, per il futuro, se si raffronta con il passato, che non c’è movimento che possa mettere in discussione questo valore storico. Però va fatto comprendere con maggiore efficacia e con maggiore capacità, ai nostri concittadini e ai governanti.

A questo sforzo di mettere in comune il futuro degli europei si è aggiunta la considerazione che senza questa prospettiva l’Europa non conterà nulla nel mondo.

Ieri è stato ricordato il ruolo di Stati Uniti, Russia, Cina. Quale Paese dei nostri, anche il più in solido e il più prospero, può essere un interlocutore che può contrastare o comunque discutere, amichevolmente o non amichevolmente, con i colossi della comunità internazionale?

Ma anche sotto il profilo della sicurezza, rispetto a eventuali ritorni di ostilità di qualcuno dei grandi Paesi, che cos’è più efficace? Un’Unione infragilita dalle rivalità interne, in cui ognuno si presenta, in realtà, da solo oppure un’Unione coesa, compatta, che rende più forti tutti i Paesi che la compongono?

Sono domande elementari e risposte ovvie, ma bisogna far capire queste ovvietà alle nostre pubbliche opinioni.

Noi abbiamo spesso commesso degli errori – evidentemente – nel considerare come ormai acquisiti alcuni risultati, dando per scontate alcune condizioni. Invece va fatto capire, anche alle giovani generazioni, che queste condizioni non sono mai né acquisite per sempre, né scontate per sempre.

Anche quando parliamo del bilancio dell’Unione dobbiamo stare attenti a evitare il rischio della logica del dare e avere.

L’Italia è un contributore attivo dell’Unione. Ma mi sono sempre rifiutato di considerare questi rapporti sul piano del dare e avere, anche perché i benefici dell’integrazione non sono quasi mai monetizzabili interamente. Non è attraverso il calcolo contabile che si definisce il vantaggio che l’Unione assicura a tutti i suoi componenti. E questo è un aspetto che va fatto comprendere di più, perché il rischio è quello di mettersi a mercanteggiare fra di noi, fra i nostri Paesi, sui rapporti contabili.

Questo alle volte può essere utile con gli elettorati, ma attenzione a non assecondare pulsioni irrazionali che si sviluppano nella pubblica opinione per poi condurre i propri concittadini a esiti fallimentari se non disastrosi.

L’esigenza che dobbiamo sviluppare è quella di far crescere la percezione del valore dell’Unione e di quali conseguenze vi sarebbero con un rallentamento o un indebolimento, un appannamento dell’integrazione.

Abbiamo parlato molto del prossimo Parlamento europeo, delle prossime elezioni europee. Si sono affacciati movimenti politici nuovi. Vi sono anche diverse maggioranze nuove in alcuni Paesi. Credo che tutto questo non debba allarmare perché fa parte della fisiologia della vita democratica. I nuovi movimenti, alla prova della realtà maturano nel confronto con essa. Ma soprattutto c’è anche, fisiologicamente, nelle nostre pubbliche opinioni, come ovunque, periodicamente, un desiderio di mutamento di classi dirigenti. E questo non deve preoccupare.

Quello su cui dobbiamo essere risoluti invece è ribadire che vi sono alcuni punti irrinunciabili, alcuni punti fermi dell’Unione, che danno ragione della sua esistenza e del suo carattere, e costituiscono le basi della civiltà europea: le libertà individuali, la divisione dei poteri, il rispetto delle regole stabilite dentro i Paesi e dentro l’Unione. Su questi punti fermi occorre essere intransigenti. Meno allarmati rispetto ai mutamenti di movimenti politici o di classi dirigenti.

Tutto questo ci dovrebbe spingere sempre di più a riprendere anche quel bel momento che vi è stato, come spirito, nel marzo dell’anno passato a Roma, nel ricordo dei sessant’anni dalla firma dei trattati di Roma, con un documento sottoscritto da tutti i Paesi. Documento che voleva rilanciare il cantiere dell’integrazione per farla procedere.

È sempre stato difficile far avanzare l’integrazione perché inevitabilmente si confrontano esigenze, punti di vista; ma è irrinunziabile riprendere il percorso di avanzamento dell’integrazione.

Soltanto così l’Europa potrà trovarsi non soltanto nella prospettiva di sfuggire al ritorno del suo passato così tragico, ma anche ad essere autorevole nella comunità internazionale e spandere intorno a sé stabilità, progresso e benessere.

Dai Balcani occidentali – rispetto ai quali avvertiamo l’esigenza di riprendere il percorso di avvicinamento all’Unione, indispensabile per garantirsi un rapporto sempre più positivo con questi Paesi – finché non sarà possibile nei tempi diversi e praticabili il loro ingresso nell’Unione – al rapporto con l’Africa, l’Unione potrà svolgere un ruolo protagonista – anche a beneficio dei suoi concittadini e dei suoi Paesi membri – soltanto con lo spirito poc’anzi richiamato dal presidente finlandese.