Rivolgo a tutti un saluto molto cordiale e un ringraziamento al magnifico coro di bambini e ragazzi che hanno così ben cantato l’Inno nazionale e l’Inno d’Europa.

Saluto e ringrazio il Sindaco e l’Amministrazione comunale di Pontedera che, unitamente al Centro Giovanni Gronchi per lo studio del movimento cattolico, hanno promosso questa cerimonia.

Saluto il Presidente della Regione Toscana, attore, nel 1995, in qualità di Sindaco dell’epoca, della celebrazione del 40° dell’elezione di Giovanni Gronchi a presidente della Repubblica.

Ringrazio il professor Mazzei per la sua interessante, profonda e completa rievocazione della figura di Giovanni Gronchi.

Un saluto particolare a Maria Cecilia Gronchi e agli altri familiari, nipoti e pronipoti del Presidente Gronchi.

Una salda risolutezza nella coerenza con le scelte politiche e sociali delle origini, ha caratterizzato la vita di Giovanni Gronchi, unico sindacalista eletto, sin qui, alla più alta magistratura della Repubblica.

In termini autobiografici dirà di sé: “Devo dire che se la mia linea non ha cambiato in questi anni, dipende dal fatto che sono stato prima organizzatore sindacale e poi uomo politico”.

Nella esperienza intrapresa dal giovane attivista cattolico pontederese, l’attività sindacale, le organizzazioni popolari, il vissuto delle comunità civili, possono insegnare alla politica l’intelligenza diretta delle idee e degli interessi sul campo.

Segretario generale del sindacato di ispirazione cattolica Confederazione italiana dei lavoratori, dal 1920 al 1922 e poi, ancora, nel 1926 sino alla soppressione delle libertà da parte del regime fascista, Giovanni Gronchi fu, accanto ad Achille Grandi, tra i protagonisti discreti nel 1944 del Patto di Roma, che sancì lo sforzo di unità sindacale delle diverse anime delle organizzazioni dei lavoratori pre-fasciste.

E il tema della partecipazione dei ceti popolari alla vita democratica del Paese, sancita dalla Costituzione eppure non pienamente realizzata, fu al centro del messaggio alle Camere riunite in occasione del suo giuramento dopo l’elezione a Presidente della Repubblica, nel 1955.

Anzitutto riconoscimento dei diritti del lavoro e trasformazione dei rapporti tra le classi sociali, sottolineando che “il primo problema da risolvere in ordine di urgenza è costituito dalla eliminazione della disoccupazione, che si accompagna alla miseria e agli stenti”.

Aggiungendo: “Per liberare il più rapidamente possibile tutti ed ognuno dall’angoscia dell’incertezza del pane, occorre che alla continua espansione del reddito nazionale si accompagni un impegno di fondo per migliorare la distribuzione nel senso di un costante sviluppo della linea sociale dell’economia”.

Indicava quel passaggio dalla “democrazia formale” alla “democrazia sostanziale” che avrebbe segnato il percorso dall’antico schema dello Stato liberale al nuovo corso repubblicano.

Proprio a Gronchi toccò il compito di guidare la nuova fase della vita politica del Paese, esaurito, con il mandato del presidente Einaudi, “il ciclo decennale della Ricostruzione” del Paese dalle macerie della guerra voluta dal nazismo e dal fascismo.

In effetti la sua elezione coincise con la definitiva liquidazione dell’eredità bellica che vedeva l’Italia in condizione di minorità rispetto alle potenze vincitrici. L’ingresso alle Nazioni Unite, rimosso il veto dell’Unione Sovietica, sanciva l’apertura di una fase di maggior dinamismo in politica estera, della quale si sarebbe reso interprete lo stesso presidente Gronchi con iniziative e riflessioni che avrebbero talvolta sorpreso gli interlocutori tranne sollecitarne successivamente l’interesse, a partire dalla questione mediterranea.

Era stato relatore alla Assemblea Costituente sulla ratifica del Trattato di pace, avversato da esponenti della vecchia classe politica. Gronchi, parlando in aula, il 31 luglio 1947, ebbe ad accostare quella scelta per l’Italia a quella cui si trovarono di fronte, nel 1849, dopo la sconfitta di Novara, personalità come Cesare Balbo e Camillo di Cavour.

Solo la presa d’atto da parte della Repubblica delle dure conseguenze della sconfitta dell’Italia fascista, avrebbe potuto, secondo Gronchi, aprire in quel 1947 – così come era accaduto un secolo prima – una nuova stagione politica per la patria.

Troviamo qui la radice della concezione che guidò, in questa materia, il presidente Gronchi. Non ne fu certamente estranea – in lui, interventista cattolico, volontario nella Prima guerra mondiale e decorato di una medaglia d’argento, due di bronzo e due croci di guerra – la ferma distinzione tra significato e insopprimibilità dei valori patriottici e le infatuazioni di vuoti rigurgiti nazionalistici.

Netta testimonianza venne dal discorso pronunciato, in qualità di presidente della Camera dei Deputati, poche settimane prima dell’elezione al Quirinale, in occasione della celebrazione del decennale della Resistenza, il 22 aprile 1955.

Il riferimento fu, esplicito, a “una coscienza nazionale che si rinnova, che attinge ai valori supremi spirituali e storici che la patria sintetizza, che rende imperiosa l’esigenza dell’autonomia e dell’indipendenza verso ogni egemonia dei più forti” e che, proprio per questo “preme per rompere il cerchio fatale dei miti della violenza, del diritto della forza, dell’equilibrio di potenze”.

Quella che una felice formula definì, in altri termini, il passaggio dal diritto della forza alla forza del diritto, nell’ottica della pacificazione internazionale.

Si coglie, qui, l’acuta percezione dello statista di Pontedera, circa il tramonto dell’epoca del ruolo di ex grandi potenze come il Regno Unito e la Francia e la opportunità per tutti i Paesi di procedere, invece, a “integrazioni più complesse e più vaste che, senza negare o anche soltanto sminuire il sentimento sacro della patria, lo armonizzino in una concezione superiore di pacifica convivenza”.

Una visione in lui radicata, che lo aveva già portato, in occasione dell’importante intervento svolto sotto l’auspicio del Centro italiano di studi per la riconciliazione internazionale e dedicato a “La politica internazionale e le classi lavoratrici”, il 25 maggio 1949, a sostenere che “così come in un paese le classi devono temperare il loro egoismo particolare e convincersi come lo stesso loro interesse particolare si assolva più effettivamente inquadrandolo e conciliandolo con gli interessi generali, così ciascun paese deve persuadersi che i propri interessi sono efficacemente e durevolmente difendibili soltanto entro un quadro di solidarietà e concordia”.

Non va dimenticato che la sua presidenza ha accompagnato la scelta della nascita e dell’avvio dell’integrazione europea. Di quella che oggi si chiama Unione Europea e che – pur con lacune e contraddizioni – ha assicurato un patrimonio inestimabile di pace e di benessere.

Insomma, una “coscienza internazionale nuova”.

Sono i prodromi anche di quel “nuovo atlantismo”, attribuito al presidente Gronchi, che sostanzialmente prendeva atto del gigantesco passo in avanti rappresentato dall’abbandono di alleanze puramente militari di reciproco sostegno in caso di aggressione di paesi terzi, per giungere ad alleanze politico-difensive come lo stesso Trattato dell’Atlantico del Nord, in una logica di integrazione.

Dal rapporto con potenze garanti e tutrici, a relazioni fra alleati su un piano di eguaglianza, con decisioni vincolanti per tutti i contraenti, indipendentemente dal loro peso e influenza.

“Affrontare il nuovo”, era la sfida che il Presidente Gronchi si apprestava a raccogliere, sulla spinta di una crescita che avrebbe accompagnato il settennato della sua presidenza (il c.d. boom economico).

La sua posizione in materia economica, si era già manifestata, in termini operativi, nel periodo dell’immediato dopoguerra che lo vide alla guida del Ministero dell’Industria, del Commercio e del Lavoro. La sua grande attenzione al ruolo dello Stato nei processi di crescita e modernizzazione si basava, in effetti, sul proposito di coinvolgere importanti attori, a partire dagli Stati Uniti, in progetti di espansione, allo scopo di ottenere cospicue aperture di credito.

Era il momento di completamento del percorso di piena integrazione nel sistema di scambi commerciali e finanziari delineato alla conferenza di Bretton Woods nel 1944, “per l’inserimento di pieno diritto nell’ambito della vita economica internazionale”, fortemente voluto da De Gasperi.

Una impostazione – osserva il prof. Daniele Caviglia – che “contribuiva in maniera decisiva al superamento della condizione di ex-nemico” ma che, mentre reinseriva il paese nel circuito economico internazionale, poneva il tema di adeguare le strutture dell’economia italiana alla dimensione internazionale.

Un’opzione che aveva sollevato anche polemiche contro quella che venne allora definita operazione di vertice “frutto di una strategia giacobina portata avanti con determinazione e coerenza da una cerchia ristretta di membri del governo e dall’establishment economico, con in prima fila la Banca d’Italia”, polemiche contro cui si schierava una personalità come Ugo La Malfa, per “la sconfortante arretratezza delle culture dei ceti dirigenti, impauriti dei passaggi inevitabili della modernità del paese”, secondo quanto attesta Paolo Soddu.

La necessità di evitare un finanziamento inflazionistico della spesa statale, evitando deprezzamenti della moneta, venne condivisa da Gronchi che fece espresso riferimento, nel messaggio, alla “esigenza inderogabile di mantenere condizioni di sanità monetaria, attraverso una saggia politica per gli investimenti e le spese”.

L’instabilità politica che intervenne con la crisi della formula di governo basata sulle forze politiche centriste caratterizzò l’ambito entro cui si trovò ad operare il presidente eletto nel 1955.

E fu nel pieno di questo stallo che toccò all’antico esponente popolare individuare un ruolo istituzionale sino ad allora non sperimentato nella figura del Presidente della Repubblica, utilizzando la “cassetta degli attrezzi” contenuta nella Carta fondamentale, la nostra Costituzione.

I costituzionalisti furono largamente concordi in un giudizio positivo; non altrettanto alcuni commentatori politici.

Come ha ricordato questa mattina il prof. Mazzei nel suo intervento, fu lo stesso Gronchi, ormai verso la fine del suo mandato, a voler tornare su quello che era stato definito da qualcuno il suo “interventismo”.

Lo fece in occasione della celebrazione del centenario dell’Unità d’Italia, il 25 marzo del 1961, in un discorso letto a Senatori e Deputati riuniti in assemblea comune, la prima volta della giovane Repubblica: “Spetta a me dire queste cose? – si interrogò, per poi proseguire – Forse qualcuno ancora sorgerà a parlare di esorbitanza delle funzioni costituzionali di un Capo dello Stato. Ma io credo in coscienza che spetti a questo più per dovere che per diritto il segnare indirizzi e orientamenti quando lo ritenga essenziale agli interessi della Nazione. E con ciò nessun tentativo di sovrapporsi o di sostituirsi al Parlamento o all’Esecutivo ai quali resta integra e rispettata la libera responsabilità di accogliere o non questi orientamenti”.

Il suo messaggio da presidente neo-eletto, dopo l’accorato appello sul lavoro e la riflessione sulla pace da raggiungere attraverso un efficace ordinamento internazionale, si era chiuso con un incitamento al Parlamento – una vera e forte esortazione – a completare gli istituti previsti dalla Costituzione e fu, davvero, questa, un’opera portata avanti con efficacia durante il mandato di Gronchi, tanto da far parlare dapprima di “disgelo” e poi di “compimento” costituzionale, aprendo, di fatto, una nuova fase nella politica italiana.

Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura, Consiglio dell’Economia e del Lavoro furono infatti insediati in quegli anni, mentre a non trovare spazio fu allora, ancora, l’attuazione dell’ordinamento regionale.

Insediando la prima Corte costituzionale nella storia d’Italia, Gronchi ritenne di qualificarne così le funzioni: “La Corte si inserisce in questo complesso sistema di equilibri come elemento che può dirsi nello stesso tempo moderatore e, per taluni aspetti, anche propulsore delle attività legislative ed esecutive, reso formalmente necessario da quella rigidità della nostra Carta fondamentale in cui il Costituente ripose gran parte delle speranze per una lunga stabilità delle nostre istituzioni”.

A dar sostegno a quanti avevano colto la novità del messaggio gronchiano fu Piero Calamandrei.

In un intervento apparso sulla rivista Il Ponte del giugno 1955, Calamandrei riconosceva il ruolo del presidente della Repubblica come “custode della Costituzione”, in una funzione di “responsabile vigilanza costituzionale” e dichiarava il suo appoggio al messaggio del nuovo presidente “nel quale – cito – si esprime una onesta ed energica volontà di raddrizzamento del timone costituzionale… In questo senso si può veramente dire che la Costituzione parla attraverso il Presidente della Repubblica: come il Montesquieu diceva che i giudici sono la bouche de la loi, così si può dire che attraverso l’ammonimento dei messaggi presidenziali parla nel nostro ordinamento la Costituzione: contro ogni smarrimento costituzionale, contro ogni deviazione, contro ogni inerzia, il presidente della Repubblica può essere, se vuole, la viva vox constitutionis”.

Un dibattito alimentato nel corso degli anni.

In occasione di riflessioni dedicate a Gronchi, Giovanni Galloni sul numero speciale di Civitas nel 1987, nel citare Labriola, individuava nel presidente della Repubblica, così come nella Corte costituzionale “un inter-potere, un punto di incontro, di supplenza, gestore non già di una politica di governo, che non gli compete, bensì degli indirizzi fondamentali che sono iscritti nella nostra Costituzione e rispetto ai quali i programmi di governo, a seconda di come si sono costituiti, o di come sono organizzati, sono una espressione, un segmento particolare”.

Potremmo riassumere, evocando liberamente Paolo Barile, che il Presidente della Repubblica pro-tempore è portatore dell’indirizzo di attuazione e di rispetto della Costituzione.

Nel succedersi dei decenni, l’edificio della Repubblica è stato irrobustito dall’azione dei presidenti che si sono succeduti sino a ieri.

A Giovanni Gronchi, il merito di avere contribuito alla costruzione di un’Italia protagonista nella comunità internazionale, di un Paese più prospero e più giusto, di una Costituzione materiale capace di integrare i ceti popolari nella vita democratica. Il merito di aver saputo accompagnare il nuovo che si manifestava nella vita del Paese; in piena aderenza agli obblighi del mandato affidatogli.