“La terribile scomparsa avvenuta questa tarda notte del compagno Presidente Roberto Ribeca mi ha sconvolto. Posso dire che si trattava di un uomo straordinario, che avevo potuto conoscere a fondo, oltre che per la nostra collaborazione politica a partire da settembre, quando aveva creduto in me dandomi alcuni ruoli in ‘Spazio Berlinguer, soprattutto per il suo contributo in apparenza modesto ma nei fatti importante per ‘Acilia Partigiana’ e per ‘Progetto Duranti’. Mi raccontò infatti del padre, Giulio Remo Ribeca, deportato a Mathaüsen e poi arruolatosi con l’Esercito Statunitense una volta evaso coraggiosamente; della madre, infermiera di guerra friulana, Anna Castellani; del fratello della madre partigiano delle Brigate Garibaldi del Partito Comunista Italiano – PCI, Secondo Castellani. Era un uomo legato a un profondo amore per due cose, per quanto l’ho conosciuto io almeno: in primis la vicinanza e la passione per i rioni popolari, da lui sempre sostenuti nelle rivendicazioni e nei bisogni sino all’ultimo e in secundis per il legame forte con l’eredità di quel PCI, soprattutto quello di Enrico Berlinguer, amava infatti dire di essersi ‘fermato al 1984’, a una politica che mettesse il ragionamento prima della contesa elettorale. Era insomma un amico del popolo e un amico degli intellettuali, doti rare che me lo fecero politicamente sempre apprezzare. Nella pratica il suo impegno per mantenere una Sezione, un Circolo, nel centro di Ostia, ormai unico a Sinistra in quest’area in cui abbiamo il Governatorato e la sua lucidità sull’ineluttabilità della società multi-etnica, ne facevano una risorsa davvero preziosa tanto come ‘militante’ quanto come ‘pensatore’. Se ne è andato un intellettuale, ma anche un uomo di Resistenza: non a caso il Partigiano Bruno Peverini, ultimo ancora tra noi del nostro territorio, è stato il primo a chiedermi dei funerali. Ciao professore”. Così Lorenzo Proia, Responsabile Giovani e Addetto Stampa di ‘Spazio Berlinguer’ e Responsabile ed ideatore di ‘Progetto Duranti’, esponente del Partito Democratico, giovane giornalista e storico, autore di ‘Acilia Partigiana. Eroi venuti dal Popolo’.

La testimonianza di Roberto Ribeca su ‘Acilia Partigiana’

Mia madre, Anna, era di una famiglia numerosa: tre sorelle e due fratelli. Era assistente ai ferri, infermiera, del professor Pierri, che era stato un po’ emarginato, confinato – credo che fosse romano -, perché credo che si fosse rifiutato di operare Mussolini di appendicite; era un uomo di Sinistra che poi dopo la Liberazione fu pure eletto in Parlamento. Uno dei miei zii, che si chiamava Secondo (secondogenito), lavorava a Monfalcone (cantiere navale), era uno stimatissimo tecnico, meccanico, dalle “mani d’oro”; era Comandante partigiano, il suo nome di battaglia era Annibale. Secondo è morto in Italia, ma subito dopo la Resistenza se n’era andato a lavorare in Francia, a Parigi, ma si era comprato una casetta nel paese di origine e lì ritornava e lì è morto in tarda età, quando era già in pensione, l’ANPI locale gli fece un gran funerale perché era abbastanza famoso; era, secondo i miei ricordi, una persona un po’ fuori dal comune.

Secondo prese addirittura la cittadinanza francese, perché il 25 aprile, dopo la Liberazione, quando fu festeggiata la stessa, nelle piazze di Udine vide pure quelli che stavano “dall’altra parte”, e si chiese: «ma che diamine di Paese è questo», così almeno mi raccontava, poi forse non era la vera ragione. Era comunque molto toccato da questo trasformismo. Egli faceva parte della ‘Brigata Garibaldi’ “Calligaris”. L’altro mio zio, il fratello maggiore, anche lui uomo di Sinistra, ai tempi di Scelba subì un processo: qualcuno fece la spia che nel suo campo fossero sepolte delle armi. Queste armi furono ritrovate. Venne processato e poi naturalmente assolto senza nessuna conseguenza. Mia madre, invece, sicuramente aveva un rapporto con le ‘Brigate Garibaldi’. Un giorno uno dei fascisti del Paese venne preso dal gruppo di mio zio Secondo, probabilmente una spia; gli spararono per terra dicendo «balla» per mettergli un po’ paura, ma non andò a tempo e una pallottola gli prese la gamba. Non era una ferita gravissima: lo portarono allora all’ospedale gli stessi garibaldini, all’Ospedale Forlanini dove lavorava mia madre, all’epoca, in tempo di guerra, iperaffollato. Toccò proprio a mia madre andare da questo, che tra l’altro era pure un lontano parente e lui gli disse di non voler essere curato da membri di questa famiglia, così non fu curato a dovere nel caos generale perse addirittura la gamba! Certamente non si comportò in modo molto intelligente dato che per una ferita così lieve sarebbe potuto essere curato adeguatamente se solo avesse ragionato, e nessuno voleva fargli davvero del male! Grande riserbo da parte di mia madre e da parte di mio padre, che è stato invece prima deportato a Mathaüsen e poi liberatore con gli Americani, sino a Berlino. Mio padre raccontava che i giovani nazisti gli avevano ammazzato un amico davanti agli occhi… e ne aveva visti torturare altri… caricava i morti… ma lui amava la vita… raccontava alle scuole: «Io ho salvato la pelle, perché ho capito che volevano i tedeschi: volevano la baracca pulita, e io la facevo pulire a tutti quanti», ma quando è uscito pesava pochissimo. Tornando a mio zio, in Francia sposò una immigrata italiana che veniva la Lavagna in Liguria. Mia madre invece era molto riservata, perché la guerra, soprattutto in Friuli dove magari il tuo collega di lavoro con cui andavi a prendere il caffè aveva un’attività clandestina di partigiano e tu non lo sapevi… una situazione che aveva spaccato pure le famiglie. Come nel caso di quel lontano parente, che perse la gamba, rifiutando le cure di mia madre, perché il fratello (mio zio) e i suoi uomini lo avevano lievemente ferito. Quante spaccature ci saranno state in Friuli? Dunque anche dopo si teneva tutto riservato, anche dopo la guerra, ma avevano rischiato la pelle e i miei parenti rimasero tutti fedeli alla causa fino alla fine. Mio padre, invece, malgrado avesse combattuto per l’Italia fascista, rifiutò di collaborare con i nazisti dopo l’8 settembre e per questo venne spedito a Mathaüsen, poi da lì è scappato e ha servito infine le truppe americane, con il grado di sergente. I racconti di guerra di mio padre… mi spiegarono quanto fosse terribile la guerra… anche se lo spirito di mio padre era così forte che me la raccontava quasi come un film “di Tarantino”. Lui, però, i primi anni si svegliava di notte perché aveva gli incubi che arrivassero i nazisti, i tedeschi. Imparai da mia madre, Anna, infermiera, da suo fratello Secondo, partigiano, e da mio padre Giulio, l’orrore della guerra ed il fatto che bisogna fare delle scelte di campo in periodi così cruciali. Adesso che ho una certa età, capisco e apprezzo lo spirito con cui hanno affrontato vicende così terribili… credo che grazie al loro carattere hanno riportato la pelle in salvo. Da quello che mi raccontavano non hanno mai chinato la testa, non si sono mai arresi di fronte a pericoli e vicende terrificanti .