Al Museo Carlo Bilotti, la mostra CRUOR di Renata Rampazzi, a cura di Claudio Strinati, che ripercorre la battaglia che l’artista ha condotto sin dagli anni Settanta per la parità delle donne e la loro emancipazione.

 

Video Renata Rampazzi CRUOR

Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, la mostra è organizzata da Renata Rampazzi e dal suo studio. L’iniziativa fa parte di Romarama, il programma di eventi culturali di Roma Capitale. Servizi museali a cura di Zètema Progetto Cultura.

CRUOR, sangue in latino, è un tema che ha radici antiche: il sangue di Cristo, il sangue dei martiri sono all’origine stessa dell’arte cristiana e sono state affrontate nei modi più diversi al mutare delle circostanze storiche. In questa occasione manifesta l’urgenza dell’artista a riflettere sul tema della violenza sulle donne.

In mostra 14 dipinti, 46 piccole tele, studi preparatori per la grande istallazioni composta da 36 garze, un video, che, come scrive Claudio Strinati in catalogo, da un lato sono strettamente connesse con una tradizione antichissima e ricchissima, ma dall’altro sono completamente indipendenti da qualunque condizionamento storico, anzi calano sulla nostra contemporaneità con notevole forza e potenza comunicativa per farsi strumento di vera e propria lotta intellettuale e morale in sé e per sé.

Giovane artista nell’Italia degli anni Settanta, Renata Rampazzi ha da sempre sentito la necessità di tradurre nei suoi quadri la forza della denuncia contro la discriminazione di genere. A metà tra insofferenza all’ipocrisia borghese e l’urgenza dell’esprimersi, l’artista ha riversato sulle tele la rabbia, il disagio, l’impazienza senza mai sfociare nell’osceno e nell’ovvio, ma trovando una forza pulsante e viva nel colore più provocatorio di tutti: il rosso. Con pochi tratti, ma ricchi di significante e significato, l’artista riesce a suggestionare, evocare, rappresentare pur rimanendo nell’astratto.

Le sue opere, che coprono un arco temporale dal 1977 al 2020, si declinano in Composizioni, Ferite, Sospensioni Rosse, Lacerazioni sino ad arrivare all’installazione Cruor del 2018, realizzata con la collaborazione della scenografa Leila Fteita esposta per la prima volta nella sede della Fondazione Cini di Venezia, che riassume visivamente e in modo esperienziale le altre.

Mischiando terre e pigmenti, Renata Rampazzi ha dipinto una trentina di garze, simbolo delle medicazioni delle ferite subite dalle donne, in una variazione di rossi, dal più tenue al più vivido. Appesi al soffitto su piani sfalsati, come una sorta di cortine da palcoscenico, questi lunghi drappi di 4×1 metri invitano il visitatore ad addentrarsi in un labirinto emotivo, in cui si penetra nella sofferenza e nella privazione della propria identità a causa della violenza, grazie anche alla coinvolgente atmosfera creata dalle musiche di Minassian, Ligeti e Gerbarec.

Nell’intento dell’artista la mostra vuole essere un viaggio nel quale il visitatore debba sentirsi coinvolto fisicamente, un percorso emotivo che non tanto illustri, quanto evochi in un’alta tensione morale e intellettuale il tremendo fenomeno della violenza sulle donne, raccontato non in maniera manifesta ma tuttavia evidente e urgente, grazie al colore rosso presente su tutte le opere esposte.

È prevista una tavola rotonda che affronterà da diversi punti di vista ed esperienze il tema della violenza nei confronti delle donne. A confrontarsi su questo argomento saranno Dacia Maraini, scrittrice, Luciana Castellina, politica, Chiara Valentini, giornalista e saggista Margarethe Von Trotta, regista, Francesca Medioli, storica, Massimo Ammanniti, psicanalista, e la stessa Renata Rampazzi.

La mostra è accompagnata da un catalogo (Edizioni Sabinae, bilingue italiano, inglese) con testi di Dacia Maraini, Maria Vittoria Marini Clarelli e Claudio Strinati e una testimonianza dell’artista.

Parte del ricavato delle vendite del catalogo sarà devoluto all’Associazione Differenza Donna.

 

Musiche Installazione Cruor

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BIOGRAFIA

Renata Rampazzi nasce a Torino da una famiglia di origine italo-francese. Diplomatasi al Liceo artistico completa gli studi presso la Facoltà di Architettura.

A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, partecipa alla vita culturale della città, frequentandone i protagonisti come Umberto Mastroianni, Antonio Carena, Adriano Parisot, Piero Ruggeri oltre a Marcello Levi, Paolo Fossati, Luigi Carluccio.

I quadri di questi anni risentono ancora di una lontana ispirazione figurativa.

Per approfondire ulteriormente la sua ricerca alla metà degli anni Sessanta lavora all’Accademia di Salisburgo, con Emilio Vedova, avvicinandosi all’espressionismo astratto, poi con l’artista franco-cinese Zao-Wou-Ki.

Del 1973 è la prima importante personale alla Galleria dello Scudo di Verona.

Nel 1977 alla Galleria Vismara Arte Contemporanea di Milano per la prima volta Renata Rampazzi espone delle opere profondamente sofferte e percorse da larghe ferite, dalla marcata gestualità espressionista.

Alla fine degli anni Settanta si trasferisce col regista Giorgio Treves a Roma.

Le sue opere diventano soprattutto di grande formato e la pennellata si fa più distesa e ricca di trasparenze e cromatismi. Sono di questi anni i suoi primi lavori su carta con le tecniche della gouache e dei pastelli grassi. Entra in contatto con l’ambiente del cinema. Per Gruppo di famiglia in un interno, Luchino Visconti le chiede alcune tele dai toni blu e viola, che il grande regista chiama mannianamente “le mie montagne incantate”. Margarethe von Trotta diventa una tra i suoi più fedeli collezionisti e diversi suoi quadri sono inseriti nelle scenografie di L’Africana e Il lungo silenzio. In questi anni collabora con vari architetti e arredatori tra cui Marika Carniti Bollea per la quale dipinge un tulle di 80 metri.

Nel 1984 le viene dedicata una personale al Palazzo dei Diamanti di Ferrara.  Nel 1989 espone al Petit Palais d’Art Moderne di Ginevra.

Dopo un periodo segnato da problemi di salute, la sua pittura si sviluppa soprattutto attorno a composizioni plurime e a quadri di piccolo formato.

Nel 2006 le viene dedicata una grande antologica all’Archivio di Stato di Torino.

Nel 2010 una personale curata da Vittorio Sgarbi all’ex Convento di San Nicolò in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto. Nel 2011 espone con la Galleria Marino ad Artparis 2011 al Grand Palais di Parigi ed è invitata alla 54. Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, a Palazzo Venezia, Roma.

Del 2013 è la personale all’Espace Culturel di Le Lavandou a cura di Olivier Kaeppelin, Direttore della Fondation Maeght.

Nel 2017 espone a Setteartistiunamostra presso la Galleria del Cortile a Roma e, nel 2018, è ospitata presso la Fondazione Giorgio Cini, nell’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, dove presenta l’installazione CRUOR. Sangue sparso di donne.

A fine settembre espone SCINTILLE presso la Galleria Borghini Arte Contemporanea di Roma.


TESTO CLAUDIO STRINATI

L’ARTE VINCE

Il sangue di Cristo, il sangue dei martiri sono tematiche all’origine stessa dell’arte cristiana e sono state affrontate nei modi più diversi al mutare delle circostanze storiche. Di volta in volta come emblemi della Fede e della Speranza o, all’ opposto come emblemi del male cui non vi può esser riparo o riscatto.

Ed è proprio a questo filone che Renata Rampazzi si ricollega con questo ciclo di opere che da un lato sono strettamente connesse con una tradizione antichissima e ricchissima, ma dall’ altro sono completamente indipendenti da qualunque condizionamento storico anzi calano sulla nostra contemporaneità con notevole forza e potenza comunicativa che prescinde dal tema religioso per farsi strumento di vera e propria lotta intellettuale e morale in sé e per sé. Non c’è dubbio che nelle intenzioni dell’artista è basilare il coinvolgimento fisico e emozionale presupposto e conseguenza dell’operazione estetica.

L’ idea della Rampazzi è stata quella di creare un percorso che non tanto illustri quanto evochi in una alta tensione morale e intellettuale il tremendo fenomeno della violenza sulle donne e le tragedie conseguenti.

Il tema del sangue, così, si trasforma nelle mani dell’artista nel tema più specifico e molto forte e coinvolgente della ferita, della lacerazione, della violazione, verrebbe da dire, dello spazio figurativo (una violazione peraltro voluta dall’ artista stessa) di un elemento di violenta e perturbante disarmonia proprio in un contesto che nasce invece con l’intento di dare bellezza, forma, equilibrio.

 Perché tale è la sostanza della pittura di Renata Rampazzi, in tutte le sue manifestazioni. La Rampazzi appartiene, infatti, a quella categoria di artisti dediti all’ astrazione che pensano l’astrazione stessa come contenuto e significato, non come ornamento e edonistica composizione.

La Rampazzi è nata, come artista, da studi molto approfonditi e appassionati sulla modellazione delle forme in un clima culturale ed estetico di formidabile fervore quale è stato quello dell’Italia tra gli anni Settanta e Ottanta del ventesimo secolo. Qui molti giovani e giovanissimi artisti si muovevano attraverso una assimilazione dell’action painting e, nel contempo, della Pop Art rimescolata da personalità ancora profondamente calate nel culto della classicità e della continuità storica che ha caratterizzato l’ambiente italiano e francese per molto tempo. E proprio da una esperienza combinata di dottrina italiana e dottrina francese scaturisce la peculiarità di Renata Rampazzi, artista animata da un impulso etico mai scindibile dalla sottile qualità di un lavoro che si è qualificato come estremamente vivo e incisivo nell’ imaginario del nostro Paese al passaggio tra il Novecento e il Duemila.

Oggi ne percepiamo, con una mostra come questa, gli sviluppi più maturi e consapevoli e la aerea leggerezza della stesura della nostra pittrice si rivela invece dotata di un criterio di profondo rovello interiore e di audace e sintetica attitudine a un segno vigoroso e possente.

Il tema, allora, è proprio quello della violenza sulla donna, nella esplicita evocazione di atti oscenamente feroci colpiti dall’ arte e fissati in una forma che si manente in perfetto equilibrio tra la denuncia della vita e la sublimazione dell’arte che assimila ma non dimentica il male nella positività inevitabile della sua forma ed è qui che troviamo un punto di notevole significato e bellezza.

L’ autrice ha mutuato da una tradizione antichissima ribaltandola in prepotente modernità, l’idea di una specie di cammino marcato nello spazio da una serie di pannelli, fatti di garze e teli, che smembrano evocare una vera e propria processione, una sfilata di dolenti che accompagnano il visitatore nel tragitto della mostra ma sono la mostra stessa, oggetti di osservazione e segnali nello spazio del cammino.

 Il visitatore è sollecitato a muoversi come il pellegrino che va al Santuario, ma questo è un santuario laico e non ci sono immagini di santi o di martiri, ci sono soltanto lacerazioni e aggregazioni che ci fanno vedere ciò che di fatto non c’è: il dolore, la ferita, il pianto, il grido.

O, per meglio dire, tutto questo c’è, eccome, ma c’è nel senso precipuo dell’arte in generale. C’è come qualunque cosa che sia rappresentata o evocata in un’opera d’arte figurativa. C’è, in altri termini, una immagine che in ogni caso rappresenta se stessa. Ma quel se stesso è appunto il monito, l’indignazione, la meditazione, tutti coagulati in una essenzialità visiva che dice molto più di mille descrizioni o perorazioni piene di episodi, aneddoti, dettagli.

Qui non esiste l’episodio o il dettaglio. Esiste con sobrio e solenne vigore l’immagine che evoca senza dire, sollecita senza retorica, commuove senza accumulare una infinità di particolari e precisazioni.

L’arte di Renata Rampazzi ha sempre avuto questa peculiarità. E’ proprio arte di essenza, che onora l’idea antichissima del colpo d’ occhio quale metafora della pittura in sé o per meglio dire dell’arte figurativa in sé.

L’arte colpisce, pensavano i grandi teorici del Seicento che hanno dato vita alla critica d’arte moderna, e suo simbolo supremo è quello della freccia scagliata a prendere in pieno il bersaglio, metafora, nel contempo, della disposizione amorosa nella freccia scoccata da Cupido.

E’ efficace monito della fratellanza tra la disposizione amorosa e quella artistica, essendo l’opera d’arte sempre e comunque generata da un atto d’ amore verso l’argomento stesso che l’artista voglia trattare.

E il caso di Renata Rampazzi è esemplare in tal senso. Tutta la sua arte è mossa da un impulso amoroso che può diventare, in questo caso, una sorta di opposto da sé, l’impulso, cioè, alla indignazione, al dolore, alla denuncia.

Ma ritorna, nell’esame delle opere della Rampazzi in questa circostanza, l’eterno problema inerente all’arte di denuncia o meglio all’arte quale denuncia.

E’ realmente possibile? Entro certi limiti la risposta è negativa.

Certo che esiste l’arte di denuncia! Ma resta il fatto che l’artista non crea un’opera d’arte per denunciare quale primo e immediato obbiettivo del suo fare. Crea per creare. Se la creazione implica denuncia è logico che l’impulso del pittore possa e debba essere poderoso e generare forza emotiva e costernazione in chi guarda, che vede svelati orrori e miserie altrimenti meno percepibili e comprensibili.

Ma l’artista fa questo producendo bellezza, altrimenti l’arte non ci sarebbe e la bellezza è un valore positivo in sé. C’è insomma un apparente contraddizione che non può mai essere risolta fino in fondo.

 E allora è interessante vedere in questa mostra come tale aporia sia risolta da Renata Rampazzi.

Renata, infatti, è una pittrice che dell’armonia e della armoniosa composizione ha fatto costante riferimento della propria arte. Il suo tratto è stato sempre contraddistinto da una delicatezza e insieme vigorosa definizione dello spazio che viene creando che rifulge in questa mostra così come si è ripetutamente manifestato nel corso della sua carriera. Eppure l’impatto con le opere costituenti la mostra è realmente e fortemente emotivo, coinvolgente e convincente proprio nella capacità di queste opere di costituire una sorta di potente esame di coscienza attraverso l’aspra e violenta lacerazione della forma, metafora del male e della sconsiderata aggressività scaturita da una devianza sessuale che non ammette giustificazioni o attenuanti.

E’ proprio questo il senso di questa solenne passeggiata di aspra indignazione nel percorso invero innovativo e nel contempo connotato di classica gravità e rigore. Lo spazio-installazione pensato dall’artista come componente essenziale del senso complessivo della mostra è una sorta di opera d’ arte globale costituita dalle singole opere, come se la mostra dovesse essere vista nelle sue singole componenti ma considerata un organismo unico vivente, attraversato dall’ esperienza di un male che l’arte tuttavia non vuole tanto esorcizzare quanto mostrare nelle sue componenti, appunto, essenziali, scevre da ogni orpello giustificazione, edulcoramento della tematica, ma visto e descritto per quello che è.

Appunto questa dimensione dell’“Essere” rintracciato sgombro da qualunque sovrapposizione, è il risultato più alto dell’arte. Perché l’individuazione dell’essenza di un fenomeno permette all’artista di mantenere fermo il principio dell’armonia e della bellezza persino quando il contenuto dell’arte stessa è la disarmonia, il terrore, il brutto.

In questo senso la Rampazzi dà una sua chiave di lettura e di interpretazione possibile sul grande argomento dell’arte di denuncia, una interpretazione che, scaturita dalla sua opera e da questa mostra in particolare, può assumere significato anche in rapporto ad altre esperienze artistiche, vicine o lontane dal nostro tempo. L’arte di denuncia, nell’ ottica della Rampazzi, è una specie di prova di forza tra l’ignobile contenuto del vivere e il nobile impegno dell’artista che deve domare una materia che gli resiste perché non ammette di essere calata nel regno dell’armonia e della bellezza.

La Rampazzi ha creato il suo lavoro, sia per quel che riguarda le singole opere, sia per quel che riguarda quel contesto di pannelli di tele e garze che sono un po’ il fulcro del significato complessivo dell’esposizione, immettendo nella violenza del contenuto il vigile controllo del dominio dello spazio estetico improntato a solennità, compostezza, magnificenza.

La soluzione della Rampazzi è, dunque, quella di puntare tutto sull’ idea del segno significante che è bello, e sovente bellissimo in sé ma resta carico del residuo di male e di colpa da cui è scaturito.

Qual è la reazione probabile dello spettatore? La percezione della componente di memoria e di lontananza che l’arte inevitabilmente comunica, allontanando l’incombenza della cronaca verso la stabilità e persistenza dell’idea estetica. E diciamo “idea estetica” proprio nel senso con cui la intesa Emanuele Kant nella sua mai troppo celebrata Critica del Giudizio, che si attaglia perfettamente al processo creativo della Rapazzi in questa mostra e in generale in tutto il corso della sua opera. Non è tanto una idea astratta di bellezza ma una idea concreta della costruzione dell’opera d’arte, proprio secondo i principi della filosofia estetica kantiana, che fa sì che la denuncia sia veicolata nella forma di una convincente e vincente immagine.

L’immagine che descrive il male non è scaturita dal male ma dalla positività della creazione artistica quando questa è orientata a descrivere un fenomeno e a fissarne gli elementi costitutivi con implacabile e suprema maestria.

Sembra di poter dire che l’idea estetica trovata dalla Rampazzi in questa circostanza sia appunto di tale tenore e significato. La bellezza dunque non edulcora il male ma ci rende conoscibile l’aspetto più profondo di ogni problema.

Fissare il tragico momento di azioni assurdamente deliranti, è un contributo essenziale alla comprensione del perché di certi fenomeni, come appunto quella della violenza. E la comprensione del perché può essere la chiave di volta per una soluzione del problema anche sul piano esistenziale, quasi una seduta di psicanalisi che, portando alla chiarezza di sé l’individuo lo mette in condizione di esorcizzare il male che è in lui.

Benefico e in questo caso veramente ammirevole bersaglio colpito dall’ arte. Doloroso indubbiamente ma rivelatore.


TESTO MARIA VITTORIA MARINI CLARELLI

CRUOR VS SANGUIS

Il latino classico distingue fra il sangue della vita e quello della morte, fra il liquido che scorre nel corpo umano e quello che sgorga dalle ferite. L’uno è chiamato sanguis, l’altro cruor.  È quest’ultimo il titolo scelto da Renata Rampazzi per la sua installazione dedicata alla violenza sulle donne: tanto più appropriato se si considera che, nella cultura romana, il termine cruor definiva anche il sangue mestruale, quello della deflorazione e quello del parto. Anche in vita la sorte femminile è più cruenta. È nel sangue che si diventa donna, moglie, madre. Ma è soprattutto nel contesto maschile che la repulsione o l’attrazione per il cruor segnano la distinzione fra umanità e bestialità. Tanto più se il sangue sparso è indifeso.

I dati sulla violenza inflitta alle donne sono tanto impressionanti da sembrare esagerati. In Italia, secondo i dati ISTAT, il 31,5 % delle donne ammette di aver subito violenze fisica o sessuale e la cifra, proprio perché si basa sulla dichiarazione spontanea, deve ritenersi inferiore al reale.  Durante il lock-down causato dalla pandemia da Covid-19, solo nel nostro paese, le chiamate ai centri antiviolenza sono cresciute del 73%. Ormai rischiamo di abituarci anche al dato più atroce: il 43,9 % dei femminicidi è opera di un partner. Mentre non mancano immagini di stupro viste dal punto di vista maschile – anche quando la prospettiva è autocritica come nel celebre Le viol di René Magritte, un ritratto femminile ridotto ai connotati sessuali -, quasi soltanto le artiste si sono occupate della violenza fisica sulle donne. Molti sono gli esempi nell’arte contemporanea: dal corpo nudo crivellato di colpi nel dipinto di Frida Kahlo Unos cuantos piquetitos (Qualche piccola coltellata) del 1935, agli occhi pesti di Nan Goldin nella fotografia Nan a month after being battered, del 1984; da Zapatos rojos, le scarpette  rosse che dal 2009 la messicana Elina Chauvet allestisce in cortei senza corpo per denunciare la violenza di genere, al murale di sagome bianche, come bamboline ritagliate nella carta,  che Elisa Caracciolo ha dipinto nel 2012 in Via dei Sardi a Roma e che continua a essere vandalizzato.

Renata Rampazzi, pittrice astratta, non poteva usare i corpi per stigmatizzare i femminicidi e ha concentrato tutta l’attenzione sul sangue, o meglio sulle sue tracce: le gocce, le macchie, gli aloni, il rapprendersi intorno alle ferite. Ma tutto è sfumato, sbiadito, come se qualcuno avesse cominciato a lavare quei panni e li avesse stesi prima di riuscire a renderli di nuovo bianchi. Le stoffe fluttuanti evocano alcuni degli attributi della condizione femminile: il velo che nasconde i capelli, lo scialle che copre le spalle, il lenzuolo esibito al balcone dopo la prima notte di nozze, il bucato sciorinato al sole.  Ma sono anche sudari colorati in tutte le tonalità che separano il rosso dal rosa

Nessuna violenza esibita. Solo la desolazione della violenza compiuta. E l’installazione che oggi è esposta al museo Bilotti sembra evocare l’ambiguità dell’odio come l’ha descritta la grande poetessa polacca Wisława Szymborska: “L’odio. L’odio. / Una smorfia di estasi amorosa/ gli deforma il viso (…) / È un maestro del contrasto /tra fracasso e silenzio, / tra sangue rosso e neve bianca./ E soprattutto non lo annoia mai/il motivo del lindo carnefice/ sulla vittima insozzata”.


TESTO DACIA MARAINI

TROPPE FERITE SUI CORPI DELLE DONNE

La fondazione Cini questa volta si occupa della violenza contro le donne che sta insanguinando il nostro paese. E non solo il nostro paese. La violenza contro le donne è un fatto trasversale, che riguarda tutti i paesi del mondo, sia quelli più avanzati industrialmente che quelli più arretrati.

Da uno sguardo di insieme sembra di potere dire che siamo di fronte a una vera e propria azione punitiva da parte di una società dei padri   nei riguardi delle nuove figlie che stanno sistematicamente demolendo le roccaforti dei privilegi patriarcali. Ricordiamo che per ogni diritto conquistato c’è un privilegio che viene negato. E certi uomini, i più deboli e impauriti, non riescono a sopportare, anche se solo simbolicamente, la perdita di quei privilegi che li rendevano, ai propri occhi, superiori e intoccabili: la supremazia nella coppia, il dominio sulle femmine della famiglia, la libertà di scelta sessuale, la possibilità di imporre ubbidienza e fedeltà alla donna che dicono di amare, l’arbitrio della conquista e della predazione, la solitudine del comando.

L’uomo che guarda con occhi saggi il mondo che cambia, capisce che se non si adegua, finisce preda della disperazione. E perciò saggiamente si adegua. Sa che la storia va avanti e mentre si acquistano nuove comodità, si perdono antichi vantaggi. L’uomo e la donna che hanno una conoscenza della storia e agiscono saggiamente, affrontano i cambiamenti e cercano di governarli per il meglio, senza rifiutare la realtà con fare che risulta alla fine schizofrenico e mostruoso.

Sono solo una minoranza coloro che usano la violenza estrema sulle loro donne, per fortuna, ma il clima di intolleranza circola anche fra i giovanissimi e così come cresce l’insofferenza irrazionale e razzista verso gli immigrati, monta il rifiuto verso le donne che diventano sempre più autonome e indipendenti.  Da qui il femminicidio e tante manifestazioni diffuse di insofferenza nei riguardi del genere femminile. Che si tratti di un sentire diffuso e viscerale lo si capisce dall’accanimento che si abbatte sulla rete contro le donne che agiscono, che si fanno riconoscere, che prendono decisioni pubbliche, che dispongono di una qualche forma di potere.

La fondazione Cini ha scelto, per raccontare queste storie di violenze contro le donne una pittrice dal braccio robusto e le idee che camminano veloci. Con mano crudele ma nello stesso tempo pudica e delicata, Renata Rampazzi trasforma i corpi di carne in visioni fluttuanti, di tela e nuvole, tela e sogni. I cieli sembrano stillare dall’alto un sangue simbolico, più pesante e torbido di quello reale, per rivelare lo spessore sordo e terribile delle ferite.  Mentre veli lavati nel sangue calano dall’alto nel tentativo pietoso di coprire le nudità forzate, violate, disarticolate.


APPUNTI DI VIAGGIO DI RENATA RAMPAZZI, 20/06/2020

Ogni giorno, aprendo il giornale, si leggono notizie di aggressioni, violenze, uccisioni perpetrate alle donne da parte di uomini. Certo, si tratta di un fenomeno che non è di oggi, ma che ai giorni nostri ha assunto una tale diffusione da far coniare un neologismo: femminicidio. L’emulazione è tale che lo stesso isolamento forzato a causa della recente epidemia di Covid 19 ha aumentato in molte coppie il rischio di uccisioni, sempre secondo la regola del più forte, dell’uomo sulla donna.

Forse è il passare da semplice atto di dominio e da una visione della donna come oggetto di sfruttamento e di possesso, all’affermarsi dell’intolleranza e alla reazione per le rivendicazioni delle donne di un uguale diritto di essere alla pari degli uomini, che ha accresciuto tanta violenza. Ma non lo giustifica.

Quando nel 2018 mi è stato proposto di realizzare una mostra personale per la Fondazione Giorgio Cini di Venezia, mi è venuto spontaneo pensare a un intervento che testimoniasse il fenomeno. Una mostra che pensavo come un mio atto di denuncia per scuotere l’indifferenza della gente e per sensibilizzare chi, uomo o donna, fosse venuto a vederla.

La vicinanza dell’isola di S. Giorgio Maggiore alle Zattere, dove Emilio Vedova aveva il suo studio e oggi c’è la Fondazione intitolata a lui e alla moglie Annabianca, mi hanno di colpo riportato al periodo in cui ho lavorato con lui, quando anche la mia pittura risentiva della gestualità del suo espressionismo astratto. Era la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta e i miei quadri rivelavano la mia insofferenza e la mia ribellione ai conformismi borghesi, come era allora. In essi la ricerca era quella di una provocazione unita a una forte carica sessuale e al richiamo del sangue, delle ferite, delle lacerazioni. Era la scoperta e la coscienza fisica del corpo, della sua fragilità e della diversità femminile.

La mostra alla Fondazione Cini mi piaceva: mi avrebbe permesso di completare un percorso, di chiudere idealmente il cerchio fra quanto era stato il motore della mia pittura passata e quanto il presente mi sollecitava come riflessione e rifiuto.

Il grande spazio in cui si sarebbe realizzata la mostra  richiedeva che realizzassi molte tele e nel mio studio romano ho iniziato a pensare a una serie di quadri sulle variazioni del rosso che dialogassero gli uni con gli altri e nei quali, accanto a ampie campiture cromatiche, lo stesso uso della spatola richiamasse nella sua essenza alla lama come arma e strumento per ferire il corpo femminile e far sgorgare il sangue. Quadri che non avessero nulla di realistico, ma fossero lo strazio delle vittime.

Poi però questo dialogo fra quadri appesi alle pareti mi è sembrato che portasse con sé il rischio della contemplazione. Che il visitatore potesse soffermarsi nella visione e immedesimarsi nell’immagine sulla tela, restando sempre ‘spettatore esterno’. Attratto o respinto, ma comunque coinvolto in un’azione inizialmente estetica che doveva successivamente fare da tramite verso una presa di coscienza e di rifiuto a posteriori.

Io invece volevo che il visitatore vivesse un’esperienza totalizzante in cui sensi e riflessione fossero coinvolti contemporaneamente.

Ho incominciato allora a vivere uno stato di disagio e d’insofferenza, un percorso di insoddisfazione e di ricerca fuori dei miei modi abituali di lavorare. Mi sono immersa in letture, nello studio di materiali e documenti fotografici, alla ricerca di testimonianze, in incontri e scambi che mi hanno portato via via a immaginare che le opere su cui lavoravo non dovessero solo dialogare tra loro, essere una galleria di esempi, una specie di Antologia di Spoon River dei femminicidi avvenuti, ma formassero un insieme: un’installazione di cui ogni quadro ne fosse una componente. Momenti autonomi, ma allo stesso tempo parti interdipendenti di un complesso più ampio. Organi vitali di un corpo più articolato.

La sala assegnatami mi è apparsa allora non più come un semplice ambiente di esposizione, come una grande galleria, ma come un universo, un involucro che avvolgesse chi guardava. Che potesse diventare l’opera stessa e che fosse essa stessa CRUOR, sangue sparso, non quello vitale che scorre nelle vene, ma quello che porta alla morte.

Come un’intuizione, ritrovavo il concetto delle mie Sospensioni[1], esposte in Francia nel 2013, applicato a un’altra realtà. I quadri che stavo dipingendo avevano infatti già in sé una loro evoluzione, un loro completarsi, una fase futura. Non si trattava più di opere lasciate e poi riprese, ma momenti ‘sospesi’ di qualcosa che doveva ingrandirsi, cambiare e prendere le dimensioni necessarie a occupare tutto lo spazio. L’installazione avrebbe dovuto essere nella tridimensionalità dello spazio, quello che la spatolata o la pennellata sulla tela erano la realizzazione bidimensionale della mia denuncia.

I quadri che avevo dipinto, mi era però chiaro, dovevano essere tutti lì presenti e avvolgere chi entrava in un labirinto.

Per me si trattava anche di passare per la prima volta attraverso fasi intermedie. L’installazione richiedeva infatti anche una ideazione spaziale e dispositiva diversa e non casuale. Il dialogo iniziale fra i quadri doveva continuare, rinnovandosi in una nuova collocazione spaziale. Si è trattato allora di costruire una maquette in cartone e procedere con la composizione-scomposizione paziente e ripetuta di accostamenti e spostamenti delle singole riproduzioni dei quadri in una astratta e ideale riproduzione dello spazio finale.

Si è quindi trattato di passare alla fase della trasfigurazione dei singoli quadri in altrettanti teli di almeno cinque metri di altezza per un metro di larghezza. Fase che comportava l’uso di altri tipi di supporto, perché le tele usate sui classici telai erano troppo rigide e pesanti. E che mi obbligava a usare e a prendere confidenza con altri tipi di tecnica e di colore, perché quelli ad olio non si adattavano alla trasparenza che volevo avesse l’installazione, in cui la luce sarebbe stata elemento espressivo e emozionale.

Abbandonate le tele, le garze sono state allora la scelta ideale, perché univano l’aspetto tecnico a quello della loro natura. È infatti con le garze che si curano le ferite, che si bendano le suture e si fasciano le bruciature. E ai colori dei tubetti a olio che avevo abitualmente usato per i miei quadri ho sostituito gli impasti e le mescole dei pigmenti, delle terre col siero organico, per riferirmi non solo più al gesto artistico, ma al richiamo degli umori dei corpi.

Ma c’era anche un altro nuovo passaggio da compiere: non potevo più lavorare da sola nella calma protettiva del mio studio, avevo bisogno dell’aiuto e dello scambio con altre persone, ognuna con la sua personalità e sensibilità. Dovevo affrontare e condividere l’esperienza con altri a cui saper demandare una parte dell’esecuzione vincendo l’abitudine, l’eccitazione di essere sola, solo io l’anima e il braccio di tutto. Non più verificare a posteriori un percorso e un’idea, ma condividerla sia come bisogno di esternare la stessa denuncia che come costruzione di un’opera comune.

Per la questa fase finale sono andata in un grande laboratorio di scenotecnica, perso nella semiperiferia romana: in un capannone senza riscaldamento, dove, in un freddo polare, fra voli di uccelli che entravano dai vetri rotti, ho potuto vivere una delle mie esperienze pittoriche più belle. Le garze da dipingere non erano disposte in verticale, ma distese a terra, e il colore passava attraverso la trama del tessuto alterando ulteriormente l’idea originale del modello rispetto a quello che sarebbe stato il risultato finale che dovevo immaginare. Non semplice copiatura in scala, ma imprevedibilità che mi permetteva di seguire l’estro del momento, l’urgenza del gesto e della sfumatura che le grosse pennellesse mi sollecitavano. Non più tanto lacerazioni, ferite, spessori di olio e di grumi come sulle piccole tele, ma sfumature, diluizioni, ombre, «tracce», che mi riportavano indietro nel tempo, al lavoro fatto in Austria e Francia con il pittore cinese Zao Wou-Ki.

E col lavoro fisico, anche la sua paziente riflessione, il suo pacato e misurato calligrafismo hanno iniziato a temperare la mia iniziale veemenza e urgenza di giustizia. La violenza del gesto si è frenata e l’urlo è diventato un lamento.

Lo spazio in cui chi entrava si doveva immergere o si sarebbe trovato circondato, non era più quello della brutalità, ma quello di un grande dolore, di una condivisione emozionale, spirituale, mentale ma anche fisica della sofferenza. La vittima del femminicidio non era più il corpus di un’ingiustizia e di un reato, ma un essere umano di sesso femminile che soffre e con cui il visitatore o, purtroppo, ancora di più, la visitatrice deve condividere l’orrore della ripulsa e l’esperienza del patimento.

Non più un’arringa e un proclama, ma un dialogo, un conforto. Non più la musica eroica di Penderecki, ma quelle melanconiche e riflessive di Minassian, Ligeti e Gerbarek per integrare un’atmosfera avvolgente in cui lasciarsi immergere e trasportare dall’emozione e dalla commozione.

[1] Quadri finiti, o non finiti, che in quanto “sospesi” possono essere ripresi anche a distanza di tempo per essere cambiati, completati… e essere ancora disponibili per una nuova elaborazione… Cioè possibili di una successiva identità.