Roma, 12/09/2018

Rivolgo un saluto e un ringraziamento al presidente della Camera, che ci ospita, al presidente del Senato, al presidente della Corte costituzionale, alla signora Marianna Scalfaro e a tutti i presenti cui sottrarrò qualche minuto per associarmi al ricordo del Presidente Scalfaro.

Ricordare il Presidente Oscar Luigi Scalfaro nel centenario della nascita significa non solo onorare la memoria di un protagonista della vita pubblica nazionale, ma anche ripercorrere più di mezzo secolo di storia repubblicana, vissuto da Scalfaro all’interno delle istituzioni, di cui è stato attore ma anche attento osservatore.

Tratteggiare la sua figura e il suo contributo alla vita pubblica nello spazio di pochi minuti risulta un’impresa complessa, peraltro agevolata dai due interventi, importanti e approfonditi, del professor Riccardi e del presidente Violante: ne hanno delineato, con nitore e completezza, la figura.

Vorrei quindi riprendere soltanto alcuni fili dei discorsi fin qui tracciati e proporre qualche riflessione.

Non vi è dubbio che il settennato al Quirinale rappresenti il compimento della vita pubblica e istituzionale di Scalfaro e, quindi, il punto centrale per valutarne il contributo allo sviluppo della storia della Repubblica.

Scalfaro, al Quirinale, si trovò, immediatamente, a gestire una delle transizioni più profonde e, per qualche aspetto, drammatiche del nostro sistema politico, quello delle diverse crisi dei partiti tradizionali, eredi della Resistenza e artefici della Costituzione, che fino a quel momento avevano retto, in sostanziale continuità, le sorti del Paese, superando, nei ruoli diversi di maggioranza e di opposizione, numerose e difficili prove: la ricostruzione, la gestione del boom economico e degli squilibri sociali, il terrorismo, la divisione in blocchi della comunità internazionale, la nascita e lo sviluppo dell’integrazione d’Europa.

Scalfaro seppe tenere la barra dritta in un momento in cui il diffuso discredito dei partiti, con la diffidenza e la protesta dell’opinione pubblica, la crisi economica e monetaria, le bombe della protervia della mafia facevano temere il collasso del sistema democratico, trascinando, insieme al mondo politico, le stesse istituzioni della Repubblica.

Con la nascita dei governi Amato e Ciampi, il presidente Scalfaro riuscì a condurre il Paese verso una fase politica nuova, che modificò profondamente la geografia del Parlamento, salvaguardando al contempo la tenuta delle istituzioni e il quadro democratico complessivo.

Qualche commentatore è rimasto sorpreso dalla circostanza che il compito di traghettare il sistema politico e istituzionale verso lidi nettamente diversi dal passato fosse toccato in sorte a un uomo di lunga militanza politica, peraltro con scarso appoggio nel suo partito di riferimento, partito che si trovava, in quel momento, in profonda crisi di consenso e di posizione. Certo, Scalfaro era esponente di rilievo di quel mondo che si manifestava in esaurimento e aveva rivestito importanti incarichi pubblici, svolti con dedizione e scrupolo, ma era una personalità forte soprattutto delle sue convinzioni, solide e radicate.

La crisi dei partiti, le degenerazioni del correntismo, gli eccessi di una concezione della politica che veniva accusata di mera gestione del potere, non lo avevano lambito. A rileggere i suoi interventi precedenti alla sua non prevista elezione a Capo dello Stato, ci si accorge che aveva denunciato, con grande lucidità, la crisi, innanzitutto morale, del sistema politico e aveva espresso, con largo anticipo, allarmi per evitarne il collasso.

Anche il suo predecessore al Quirinale, Francesco Cossiga aveva indicato anzitempo, con acume, faglie che, di lì a breve, avrebbero provocato la rottura del quadro politico. Ma mentre Cossiga spingeva nettamente sulla necessità di un profondo cambio di sistema istituzionale, di un passaggio a una fase ordinamentale nuova della Repubblica, Scalfaro attribuiva la causa del malessere non alla presunta arretratezza della Carta Costituzionale, ma piuttosto ai comportamenti di chi era chiamato a interpretarla; comportamenti e azioni che, rispetto ad essa, segnavano uno scostamento, una deviazione, se non addirittura, talvolta, uno svuotamento.

Tornare alla Costituzione, ai suoi valori autentici, ai comportamenti dei fondatori era, per lui, la strada maestra per recuperare efficacia e credibilità all’azione della politica. Riuscire a salvare le istituzioni repubblicane, e quindi l’equilibrio dei poteri disegnati dalla Costituzione, mentre tutto sembrava franare intorno a esse, fu la sua sfida: vinta. E fu anche il suo grande merito politico e istituzionale.

Questa sua peculiare posizione, di richiamo all’esempio degli uomini della Costituzione e di fedeltà ai suoi principi, gli procurò, in quegli anni, l’accusa di conservatorismo istituzionale.

Scalfaro, certamente, era devoto alla Costituzione, che aveva, da giovanissimo, contribuito a scrivere e a votare ma non aveva mai escluso la possibilità di riformarla, in una prospettiva di aggiornamento, che lasciasse però intatta la parte dei principi e, in quella ordinamentale, mantenesse ferma la centralità del Parlamento e l’equilibrio dei poteri disegnato dai costituenti.

Probabilmente era la sua formazione culturale, unita alla lunga esperienza di uomini e di vicende, che lo spingeva a non riporre la sua fiducia esclusivamente nell’ingegneria costituzionale, nell’efficacia risolutiva delle norme. Ma, piuttosto, a individuare nella coscienza delle persone, e nei loro conseguenti comportamenti, la chiave, indispensabile, per determinare processi virtuosi nella politica, nell’economia, nell’azione sociale.

In questo senso, si può sicuramente concordare con chi ha definito Scalfaro un “moralista”; moralista, ovviamente, nell’accezione più alta del termine.

La sua visione del mondo si dipanava, tutta, all’interno delle regole del gioco democratico. I suoi convincimenti, di cui andava orgoglioso e che non nascondeva, non erano di ostacolo alla comprensione e alla collaborazione con portatori di altre visioni, per Scalfaro altrettanto legittime e democraticamente degne di rispetto e di attenzione. La sua forte carica etica, legata al senso della sacralità dell’esistenza umana, non postulava mai prevaricazione, esclusione pregiudiziale o pretese di superiorità.

La sua fede religiosa, coerentemente vissuta, ha sempre accompagnato il suo cammino politico, senza mettere mai in discussione, in alcun modo, la laicità dello Stato, nel solco della tradizione di De Gasperi, che rimase per tutta la vita il suo maestro e il suo ispiratore.

Anche in riferimento a quell’insegnamento si colloca, tra gli eventi significativi del mandato di Scalfaro, il sostegno, convinto, agli sforzi dell’Italia per l’ingresso tra i fondatori dell’euro, nel maggio 1998.

La sua visione lo faceva, peraltro, dubitare sull’efficacia di un’Unione Europea che avesse tratto la sua unica ragion d’essere dal versante economico e commerciale, auspicando per l’Europa «un’anima politica», l’unica che avrebbe potuto assicurarle quel destino di pace e di solidarietà, avviato dai padri fondatori. Non rinunciava a polemizzare con la concezione “ragionieristica” ed “egoistica” che, a volte, dominava – e tuttora si manifesta – sia a Bruxelles sia tra gli Stati membri.

Durante il suo settennato al Quirinale, che ha attraversato una stagione complessa, ricca di avvenimenti e rivolgimenti interni e internazionali, Scalfaro si trovò spesso a dover tentare di dirimere contrasti, accuse, polemiche accese tra settori politici e la magistratura. Nel suo magistero presidenziale, il rispetto vicendevole tra i poteri dello Stato rappresentava, insieme, dovere istituzionale e condizione essenziale di buon funzionamento dello Stato. E’ buona regola, del resto, che i poteri statali non si atteggino ad ambienti rivali e contrapposti ma collaborino lealmente al servizio dell’interesse generale.

Nel primo discorso di fine anno, il 31 dicembre del 1992, osservava:

«Occorre che vi sia intesa, collaborazione, convergenza fra i poteri dello Stato. Questa è la democrazia. Ciascuno dei poteri nella propria responsabilità, nel proprio essenziale compito e ambito costituzionale, ma tutti convergenti al bene comune, che è servire il cittadino».

Manifestava costantemente, con chiarezza, la convinzione che il pluralismo dei poteri dello Stato e l’equilibrio tra di essi costituiscono garanzie irrinunciabili di vera democrazia e di presidio della libertà dei cittadini.

La sua visione, di equilibrio, distinzione e collaborazione tra politica e magistratura, partiva da lontano. Scalfaro, che apparteneva, con grande orgoglio, all’ordine giudiziario, intervenne durante i lavori della Costituente nella discussione sulla funzione della magistratura, affermando: ”La magistratura non può e non deve fermarsi mai nella sua opera di giustizia nei confronti di chicchessia; ma non si deve neppure dare l’impressione che in questa opera vi possa essere la contaminazione di una ragion politica”.

Per scongiurare questo pericolo si oppose, in quella sede – insieme, tra gli altri, a Calamandrei e Leone – alla tendenza, espressa da parte comunista, che proponeva giudici eletti dal popolo, e contrastòquella di chi avrebbe voluto sottoporli al diretto controllo del ministero della Giustizia.

Scalfaro sostenne che i cittadini sono chiamati a eleggere in Parlamento e negli enti locali i propri rappresentanti politici ma che questo non poteva essere «possibile in tema di giustizia che deve essere una». E aggiungeva: «Non potrà mai esservi giustizia di destra, di centro o di sinistra. Guai a porre a fianco del sostantivo giustizia un qualunque aggettivo. Alla base della democrazia due colonne stanno, entrambe salde: la libertà e la giustizia».

Come hanno disposto i costituenti, nel nostro ordinamento non esistono giudici elettivi. I nostri magistrati traggono legittimazione e autorevolezza dal ruolo che loro affida la Costituzione. Non sono, quindi, chiamati a seguire gli orientamenti elettorali ma devono applicare la legge e le sue regole.

Come spesso ebbe a ricordare anche il presidente Scalfaro, queste valgono per tutti, senza aree di privilegio per nessuno, neppure se investito di pubbliche funzioni; neppure per gli esponenti politici. Perché nessun cittadino è al di sopra della legge.

La Repubblica e la sua democrazia sono presidiate da regole. Il rispetto di queste è indispensabile: sempre, quale che sia l’intenzione di chi si propone di violarle.

Il settennato di Scalfaro, come ogni altro, e il suo successivo impegno per la Costituzione, non furono esenti da critiche e da polemiche. Al di là delle legittime diverse valutazioni, rimane il riconoscimento, con assoluta chiarezza, della sua fedeltà alla Costituzione, del suo ottimismo incrollabile sulle sorti dell’Italia, della sua determinazione nell’assumere posizioni considerate giuste, anche contro, se necessario, l’opinione prevalente; incurante della possibilità di attacchi, di eventuale impopolarità, attento soltanto al suo dovere verso la comunità nazionale.

In una stagione tormentata, piena di insidie e di sussulti, Scalfaro fu un uomo saldo nei convincimenti, risoluto e coraggioso nelle decisioni. Un uomo, forse, di altri tempi. Ma che seppe essere all’altezza dei tempi quando fu chiamato ad assolvere, con dignità e onore, le massime responsabilità nella vita dell’Italia repubblicana.